COMUNICATO STAMPA

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05/12/2011

Edilizia e braccialetti

Nel piano previsto dalle misure del governo riemerge la possibilità di affrontare l’emergenza carceri aprendo la strada per la realizzazione di nuove strutture ricorrendo alla privatizzazione. I costi di realizzazione degli edifici potrebbero essere finanziati con capitale privato, secondo un modello di partenariato pubblico- privato per il quale i costi di realizzazione della struttura sono reperiti da finanziamenti privati attraverso strutture bancarie.
Analoga proposta fu lanciata dal Consiglio dei Ministri nel 2009, che approvò il “piano carceri”, creato per dare risposta all’emergenza del sovraffollamento penitenziario, per poter ampliare la capienza degli istituti fino ad oltre 60mila detenuti (a fronte degli attuali 43mila posti).
La copertura economica di questo piano prevedeva che una parte dei fondi fosse tratta dalla Cassa delle Ammende, ed il Governo aprì già allora anche ai finanziamenti privati attraverso lo strumento del "project financing" per la costruzioni dei nuovi edifici. Già quella volta questa decisione sollevò non poche proteste da parte del volontariato. Si decise di destinare 150 milioni di Euro della Cassa Ammende, la cui destinazione, istituita presso il Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria era riservata al Consiglio di aiuto sociale per le attività dello stesso art. 74 Ord. Penit., comma 5, n.1; attività individuate dai successivi articoli 75 e 76: assistenza penitenziaria e post-penitenziaria ai detenuti e alle loro famiglie, nonché soccorso e assistenza alle vittime del delitto. I dubbi sollevati da tutti coloro che protestarono su tale utilizzo, sollevando dubbi sulla legittimità della diversa destinazione di tali fondi decisa dal ministro, vennero rapidamente appianati tramite un decreto “mille proroghe”, in cui venne modificata la normativa sulla Cassa Ammende, prevedendo in tal modo che con le stesse risorse si potessero costruire anche le carceri. In tal modo si garantiva il reinserimento della persona: ovviamente, solo in carcere. Definimmo la proposta di finanziare i nuovi istituti “leggeri” con questi fondi come una applicazione alla rovescia della riforma. Ciò che avrebbe dovuto essere destinato per la risocializzazione veniva utilizzato per la reclusione; ciò che avrebbe potuto favorire la rieducazione del condannato, la sua possibilità di integrazione e quindi la minore recidiva, era ridotto o tolto. Alla base, c’è una contraddizione politica profonda. Affermare di voler «combattere il sovraffollamento» costruendo nuove carceri è come sostenere di voler «costruire la pace» attraverso la corsa agli armamenti. Il filo che lega i due fenomeni non è la lotta alla criminalità, è invece l’opzione a favore di politiche punitive in campo sociale e, conseguentemente, di politiche di sicurezza in campo penale. Per questa ragione si costruiscono nuove carceri, anche se la metà dei reclusi è in attesa di giudizio, si limita l’accesso alle misure alternative e si continua a imprigionare in massa migranti, tossicodipendenti, senza dimora. Le cui tragiche conseguenze sono evidenziate dalle drammatiche tre morti di questi giorni. L’aumento dei posti letto ha sempre rappresentato una spinta alla crescita dell’incarcerazione: ha rafforzato l’identificazione della pena con le sbarre del carcere e, immobilizzando centinaia di milioni di euro negli edifici penitenziari, ha impedito il finanziamento di percorsi alternativi alla detenzione.
Alla luce di tanti anni di esperienza, come volontariato possiamo tranquillamente fare questa dichiarazione: i piani carceri sono inefficaci, addirittura dannosi. Più si edifica, più si creano posti per coloro che necessiterebbero di altre risposte.
A questa affermazione ne aggiungiamo un’altra: siamo decisamente contrari a ogni forma di presenza di privati nella gestione penitenziaria, anche perché sorge una inevitabile domanda: perché un soggetto privato dovrebbe essere disponibile ad investire fondi per l’edilizia carceraria? Forse semplicemente perché ritiene di poterne trarre vantaggi dalla gestione (peraltro fortunatamente impedita dalle vigenti leggi)? La gestione pubblica della pena ne garantisce infatti la sua trasparenza. Insomma, l’ingresso di privati, come annunciato, rischia di mettere ombre al sistema di garanzie che il pubblico deve detenere; è invece alle articolazioni istituzionali che vanno chiesti mezzi e risorse.
Quella dell’edilizia è una impostazione tutta italiana, molto più arretrata rispetto ad altre esperienze di altri paesi europei. Gli stessi Stati Uniti, pur precedentemente pervasi da una compulsiva spinta bulimica all’edilizia, hanno fatto marcia indietro rivedendo il programma, se non altro, per ragioni di costi. Quindi quasi solo l’Italia sembra insistere sull’ennesima “colata di cemento” sulle disastrate condizioni della nostra popolazione penitenziaria.
Secondo punto: il braccialetto elettronico. Chiunque abbia a che fare con il carcere sostiene che così non è possibile andare avanti e quindi ci vuole il braccialetto. Il ragionamento andrebbe articolato ed approfondito. Bisognerebbe innanzitutto analizzare i motivi e le cause di questa situazione. Legare il braccialetto al potenziamento delle misure alternative rischia di portare su una strada fatta di tecnicismi, anziché di rapporti, di relazioni, di presa in carico dei soggetti, di progetti sociali. Rischia di riportare tutte le risposte sul piano della sicurezza percepita, di vanificare gli sforzi di chi cerca di sostenere le misura alternative, di dare concreto sostegno ad esse. Realizzare un effettivo sistema di misure richiede d’altronde un investimento di operatori dell’area educativa e sociale, che sono sempre gli ultimi ad essere posti in organico. Nella legge Simeone-Saraceni-Fassone era stato previsto un grande aumento di assistenti sociali e di operatori del servizio sociale, ma in realtà l’incremento andò davvero a rilento. L’organizzazione del sistema, si sa, ha due componenti: quella penitenziaria, che compie le valutazioni sull’ammissione e quella giudiziaria, rappresentata dalla magistratura di sorveglianza, che sappiamo essere in forte sofferenza organizzativa. Difendere le leggi sulle misure alternative significa difenderne il suo funzionamento. Il sistema delle misure, lo sappiamo, può avere una percentuale di rischio, che diminuisce tuttavia proporzionalmente alla capacità e possibilità di presa in carico degli operatori, che svolgono una osservazione dal vero della persona. Il braccialetto rischia di essere uno strumento cieco, che può segnalare dove una persona si trova, ma non misurarne la qualità dei rapporti, la relazione con il suo contesto, la condizione lavorativa. È fondamentale perciò realizzare la conoscenza della persona, così difficile da conseguire all’interno degli istituti a causa della mancanza di personale, e accompagnare questa conoscenza passo per passo nell’esecuzione della misura.
Si può quindi fare altro: se il fine della pena è la risocializzazione, bisogna che l’operatività si rivolga verso la società. Ma bisogna essere consapevoli e trasporre queste convinzioni in una ferma decisione di procedere in questo senso. Per la società, questo significa entrare in carcere, prendersi degli impegni concreti, con la certezza che le possibilità di successo saranno maggiori quanto più saranno le forze coinvolte.

Elisabetta Laganà, presidente
 

Oggi: 27/04/2024
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